Filosofo e teologo italiano. Di nobile
famiglia, nel 1243 fu mandato a studiare a Napoli, ove entrò nell'ordine
domenicano; nello stesso anno, si trasferì a Parigi, dove divenne allievo
di Alberto Magno, che nel 1248 seguì a Colonia. Rientrato a Parigi
quattro anni dopo, lì insegnò fino al 1259, dapprima come
baccalarius, poi come maestro di Teologia (dal 1257); a questo periodo
risalgono il
Commento alle Sentenze (1254-56) e alcuni libri della
Bibbia, il
De ente et essentia e le
Quaestiones de veritate.
Tornato in Italia (1259) e creato
lector Curiae da Urbano IV (1261),
soggiornò in diverse città, attendendo alla stesura di numerose
opere tra cui: la
Summa contra gentiles, le
Quaestiones
disputatae, il
De potentia, il
De spiritualibus creaturis, il
Commentario ad Aristotele, il
Commentario a Boezio, il
De
regimine principis, e quello che è considerato il suo capolavoro
(rimasto incompiuto), la
Summa Theologica. Di nuovo a Parigi nel 1269,
condusse dure polemiche contro gli averroisti da un lato (
De unitate
intellectus contra Averroistas, 1270) e contro gli Agostiniani dall'altro;
sempre in questo periodo scrisse altre
Quaestiones disputatae e
incominciò i commenti (andati persi) al
Timeo di Platone e al
Commento di Simplicio al
De coelo di Aristotele. Nel 1272 fece
ritorno in Italia per insegnare all'università di Napoli; inviato papale
al Concilio di Lione, morì durante il viaggio. La ricerca filosofica di
T. si snoda attorno al problema del rapporto tra ragione (e, dunque,
filosofia o teologia naturale o metafisica) e fede (e, dunque, Rivelazione) e si
caratterizza per un continuo confronto con la dottrina aristotelica, nella quale
egli vede il punto più alto raggiungibile dalla ragione umana, se questa
è priva dell'ausilio della Rivelazione. Secondo
T., ragione e fede
sono realtà distinte, ma non completamente separate; in questo senso, i
campi operativi della filosofia e della teologia sono differenti (essendo la
prima sottoposta all'autorità della ragione e la seconda vincolata a
ciò che le deriva dalla Rivelazione) e, tuttavia, un loro incontro
è non solo possibile, ma anche necessario, dal momento che la
verità è unica. Ora, dato che la verità della Rivelazione
è indiscutibile, essendo fondata sull'autorità di Dio, laddove
sussista un disaccordo tra un dogma di fede e una verità di ragione,
è quest'ultima a essere senz'altro falsa; la sua falsità
può dipendere da errori procedurali, nel qual caso il ragionamento
filosofico deve essere semplicemente corretto, o dalla pretesa della ragione di
arrivare a dimostrare ciò che le è strutturalmente impossibile
dimostrare, nel qual caso essa deve essere semplicemente ricondotta entro i suoi
limiti. In questo modo, pertanto, la Rivelazione svolge una funzione regolativa
nei confronti della ragione, indirizzandola verso la verità; nel
contempo, la filosofia, sottratta alla possibilità di imboccare strade
sbagliate, può dedicarsi a dimostrare i
preambula fidei (quelle
verità in qualche misura propedeutiche rispetto alla fede), ad
approfondire l'interpretazione dei dati della fede e a controbattere alle
obiezioni avanzate contro la fede. Gli strumenti della ragione vengono
così applicati da
T., innanzitutto, alla questione dell'esistenza
di Dio; in questo senso,
T. rifiuta l'argomento ontologico proposto da
sant'Anselmo, poiché ritiene che l'idea di un ente del quale non si
può pensare nulla di maggiore non comporti necessariamente che questo
ente esista anche nella realtà, e nega, più in generale, che sia
possibile una dimostrazione
a priori. Al contrario,
T. elabora
cinque prove (o
vie), tutte
a posteriori: 1) il mondo è una
catena di movimenti in cui ogni ente mosso lo è in forza di un motore a
lui esterno; occorre un primo motore immobile che eviti di andare all'infinito,
che muova, cioè, senza essere mosso da altro; Dio è questo motore
immobile (
via ex motu); 2) il mondo è una catena di cause e di
effetti; occorre una causa prima, che non è effetto di nulla; Dio
è questa causa prima (
via ex causa); 3) nessun ente nel mondo
è necessario per se stesso, ma è solo meramente possibile; la
necessità di ciascuno di questi enti è data da un altro ente, che
a sua volta ricava la sua necessità da un altro ente e così via;
Dio è quell'ente necessario per se stesso posto al termine di questa
catena (
via ex contingentia mundi); 4) il mondo attesta nei vari enti una
gradazione di perfezioni; occorre un valore assoluto di riferimento; Dio
è questo ente più perfetto (
via ex gradu); 5) tutte le
operazioni dei corpi naturali tendono a un fine; occorre un ente intelligente
che organizzi questo ordine di fini; Dio è questo ente che provvede a
questo ordinamento (
via ex finibus). Di fronte, poi, alla
necessità di descrivere il rapporto esistente tra Dio e mondo,
T.
spezza i binomi aristotelici di potenza/materia e atto/forma, introducendo la
distinzione tra
essenza ed
esistenza: l'essenza, infatti, pur non
essendo materiale, non necessariamente è in atto. Solo Dio è atto
puro e solo in Lui, dunque, essenza ed esistenza coincidono; per tutti gli altri
enti il passaggio dal piano dell'essenza a quello dell'esistenza (cioè
dell'attualizzazione dell'essenza che è solo potenziale) richiede l'atto
creativo divino. Da ciò deriva che il significato dell'
essere non
può che essere diverso (nello specifico, necessario oppure accidentale) a
seconda che venga predicato di Dio o degli enti creati. Il termine
“essere” viene, dunque, predicato allo stesso tempo a Dio e agli
altri enti solo
analogicamente, vale a dire con significato simile ma con
forza e proporzioni differenti. Due sono le conseguenze di questa innovazione
metafisica di
T.: da un lato, a differenza di Aristotele, si hanno due
scienze dell'essere, una che si occupa dell'essere delle cose create e una che
si occupa dell'essere di Dio; dall'altro, le sostanze, a seconda del diverso
rapporto che intercorre tra essenza ed esistenza e a seconda della presenza o
meno di materia, si dividono in tre gruppi, vale a dire Dio, esistenze
angeliche, esseri composti di materia e forma. A quest'ultimo gruppo appartiene
la persona umana, creata e materiale, la cui essenza è costituita dalla
compresenza di corpo e anima; l'anima è per
T. forma del corpo ed
è immateriale, unica (ovvero esclusivamente intellettiva e non anche
sensitiva e vegetativa), individuale, incorruttibile e immortale. Partendo da
queste premesse,
T. fonda la sua teoria della conoscenza, in base alla
quale è sì indispensabile la conoscenza sensibile (
nihil est in
intellectu quod prius non fuerit in sensu), ma è, comunque,
necessaria l'attività della parte intellettiva dell'uomo; conoscere
è, infatti, un processo di
astrazione dell'essenza
(
quidditas) dell'oggetto conosciuto tale per cui la forma viene
considerata separatamente dalla materia. Da ciò deriva che il conoscere
non è un atto produttivo o manipolativo della realtà, ma un
semplice adeguamento a essa (
adaequatio rei et intellectus); laddove
questo adeguamento è sbagliato in quanto la volontà spinge troppo
precipitosamente l'intelletto all'assenso, ecco che si presenta l'
errore.
In questo modo,
T. giunge anche a dare una risposta alla controversa
questione degli universali: l'universale esiste
ante rem nella mente
quale modello per la Creazione,
in re nelle cose particolari quale
essenza appunto e
post rem nella mente umana che opera l'astrazione. Per
quel che concerne, poi, i temi squisitamente etici della riflessione filosofica
di
T., va rilevato come l'Aquinate si dedichi prima di tutto a risolvere
la questione del rapporto tra libertà umana e prescienza divina e a dar
conto, quindi, della possibilità stessa di un'etica. Al riguardo,
T. osserva due cose: innanzitutto, prescienza divina significa
semplicemente che Dio vede in un'unità atemporale quello che nella storia
dell'uomo si sviluppa diacronicamente, non che necessiti questo processo; in
secondo luogo Dio, stabilendo anche come le cose dovranno accadere, predispone
cause contingenti per ciò che deve accadere come contingente. Forte di
tutto questo,
T. costruisce il suo sistema etico individuando nella
felicità (intesa come unione con Dio) il fine dell'agire umano e
nella
virtù (suddivisa nelle quattro virtù
cardinali
e nelle tre
teologali) il mezzo per il raggiungimento di questo fine;
fondamento delle virtù morali è la
sinderesi, ovvero la
naturale disposizione dell'uomo a distinguere il male dal bene e a tendere verso
quest'ultimo. La conoscenza di cosa sia il bene, seppur condizione necessaria,
non è, tuttavia, sufficiente per compierlo, dal momento che l'azione
umana dipende dall'intervento della volontà; qualora questa
volontà si rivolga deliberatamente verso il male, si genera la
colpa. Strettamente legate alla riflessione etica sono le teorie
politiche di
T. Secondo
T., le leggi umane, la cui approvazione
spetta alla collettività politica o ai suoi rappresentanti, sono giuste
nella misura in cui rispettano le indicazioni della legge naturale; essendo
quest'ultima “partecipazione” della legge eterna (che governa tutto
l'universo ed esiste nella mente di Dio), l'impianto politico suggerito da
T. fa propria una fondazione teologica del diritto e difende la
subordinazione del potere civile a quello religioso (Roccasecca, Frosinone 1225
- Fossanova, Latina 1274).